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INCLUSIONE
Definizione
L'inclusione indica lo stato di appartenenza a qualcosa, sentendosi accolti e avvolti.[1]. L'inclusione sociale rappresenta la condizione in cui tutti gli individui vivono in uno stato di equità e di pari opportunità, indipendentemente dalla presenza di disabilità o di povertà[2].
L'inclusione è descritta da caratteristiche specifiche:
· Si riferisce a tutti gli individui
· Si rivolge a tutte le differenze senza che queste siano definite da categorie e da criteri deficitari, ma pensate come modi personali di porsi nelle diverse relazioni e interazioni
· Mira all' eliminazione di ogni forma di discriminazione
· Spinge verso il cambiamento del sistema culturale e sociale per favorire la partecipazione attiva e completa di tutti gli individui
· Mira alla costruzione di contesti inclusivi capaci di includere le differenze di tutti, eliminando ogni forma di barriera
· Allontana da sé la concezione di abilismo e di "normativa"[3]
L'inclusione sociale guarda alla disabilità non come una caratteristica interna dell'individuo che crea il non funzionamento, ma come un deficit collocato "all'interno dei processi disabilitanti prodotti da contesti, saperi disciplinari, organizzazioni e politiche incapaci di fornire una risposta adeguata alle differenze delle persone"[3]. Alla luce di questo risulta necessario osservare, proporre e cambiare i contesti sociali per realizzare ovunque l'inclusione sociale. Meneghini sottolinea questo processo: "L'inclusione è un processo che problematizza gli aspetti della vita sociale, delle istituzioni e dell politiche: si presenta come un processo dinamico, instabile, in continua costruzione, in quanto l'essere inclusivi non è vincolato al ruolo prescrittivo, a una norma, a una costrizione, ma implica una continua strutturazione e destrutturazione delle organizzazioni e dei contesti istituzionali e sociali".[4] In ambito accademico e di ricerca molti studiosi hanno dato una propria definizione di inclusione: Andrea Canevaro afferma che "è l'ampliamento dell'orizzonte nella riconquista di un senso di appartenenza[5] Patrizia Gaspari la intende "come metodo e prospettiva in grado di realizzare un processo di riconoscimento reciproco, in cui le ragioni di ciascuno si incastrino in un percorso di crescita comune"[6]; Marisa Pavone sostiene che "l'essere inclusi è un modo di vivere insieme, basato sulla convinzione che ogni individuo ha valore e appartiene alla comunità. Così intesa, l'inclusione può avvenire non solo nella scuola ma in molteplici ambienti: lavoro, gioco, ricreazione"[7]
Inclusione, integrazione, normalizzazione
Spesso il concetto di inclusione viene sovrapposto a quello di integrazione e i due termini vengono utilizzati come sinonimi, ma l'inclusione non è assimilazione e nemmeno integrazione e questa posizione è supportata dallo studioso Jürgen Habermas che afferma: "Inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura contro il diverso. Inclusione dell'altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche, e soprattutto, a coloro che sono reciprocamente estranei o che estranei vogliono rimanere"[8].
Negli ultimi decenni, i servizi hanno assunto come punto di riferimento concetti come normalizzazione e integrazione, che pongono in risalto la necessità di operare per eliminare le differenze, assimilare e avvicinare il più possibile le persone con disabilità a una condizione di normalità. Questa prospettiva considera la disabilità come un elemento negativo da rimuovere, per questo il processo assimilativo ritiene il diverso colui che deve cambiare e adattarsi alla cultura e alla società in cui vive.
I concetti di inclusione e integrazione differiscono anche per la base filosofica: il concetto integrativo rappresenta una sorta di valore aggiunto rispetto al lavoro svolto da un servizio; mentre l'inclusione consiste in un diritto fondamentale a prescindere dalle condizioni e dalle capacità individuali.
Strumenti dell'inclusione sociale
Index
L'Index è un documento completo a sostegno dello sviluppo inclusivo delle scuole. In esso “l'inclusione si riferisce all'educazione di tutti i bambini, ragazzi con BES e con apprendimento normale”.[9]. Secondo gli autori, «tutte le forme di inclusione ed esclusione sono sociali e derivano dall'interazione tra le persone e il contesto».
L'index nasce in seguito ad una serie di avvenimenti: “fino agli anni '80 il sistema scolastico del Regno Unito è stato caratterizzato da una netta separazione tra le scuole ordinarie (mainstream schools) e quelle speciali (special schools), destinate ad accogliere gli alunni che per le loro particolari condizioni venivano ritenuti non adatti alla frequenza degli istituti normali”.[10] Nel 1988, un altro Educational Act ha introdotto il National Curriculum che ha portato la necessità di una ricalibrazione delle scuole rispetto agli alunni con BES che è stata messa in atto con il SEN Code of Practices (2001) e il Disability and Discrimination Act. Diversamente dalla Gran Bretagna, in Italia con la legge 517 del 1977 e l'introduzione della figura dell'insegnante di sostegno, si ha l'abolizione delle scuole speciali dimostrando un clima di apertura e innovazione della società italiana di quel periodo. “A trent'anni di distanza dall'emanazione della legge, il panorama che caratterizza complessivamente la scuola italiana è quello di una «integrazione a metà», ossia di una situazione in cui, accanto a molte esperienze positive che possono essere identificate come «buone prassi» solitamente affermate all'interno delle strutture scolastiche, si registra tuttavia il permanere di numerose difficoltà riguardo a diversi aspetti dell'attività integrativa delle scuole, sia per quanto concerne dimensioni strutturali come la formazione degli insegnanti e la disponibilità di docenti opportunamente formati da inserire sul sostegno, sia in riferimento alla qualità stessa dell'attività di sostegno, che evidenzia una perdurante difficoltà da parte delle scuole nel produrre gli investimenti indispensabili dal punto di vista della flessibilità organizzativa[11]. Appare evidente che la situazione del nostro paese è molto diversa da quella Britannica dal punto di vista normativo ma anche organizzativo. Nel nostro paese viene sottolineata la necessità di rafforzare progressivamente l'autonomia decisionale delle scuole “almeno per gli elementi di gestione meno rilevanti visto che il presupposto è che l'autonomia vada sviluppata «a costo zero» per quanto riguarda i contributi dello stato”[12].
Sulla base di quanto affermato è importante sapere che l'Index sollecita a: definire un quadro di valori condivisi; sviluppare in modo sistemico strategie di comunità; assumere il tema della globalizzazione come un dato di realtà; affrontare il tema delle differenze.
ICF: Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute[modifica | modifica wikitesto]
L'ICF è una Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute e rappresenta una revisione della Classificazione Internazionale delle Menomazioni, della Disabilità e degli Handicap (ICIDH), pubblicata per la prima volta nel 1980 dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Lo scopo generale è di fornire un linguaggio standard e unificato che funga da modello di riferimento per la descrizione della salute e degli stati ad essa correlati. Il termine “Funzionamento” include tutte le funzioni corporee, le attività e partecipazione, mentre il termine “ Disabilità” , menomazioni, limitazioni dell'attività o restrizioni della partecipazione; l'ICF elenca anche i fattori ambientali che interagiscono con tutti questi costrutti. In esso, vengono classificati funzionamento e disabilità associati alle condizioni di salute. I suoi scopi principali sono: - offrire una base scientifica per comprendere e studiare la salute, le condizioni, conseguenze e cause determinanti ad essa connesse; - definire un linguaggio comune per descrivere la salute e le condizioni ad essa correlate al fine del miglioramento della comunicazione fra i diversi utilizzatori; - rendere possibile un confronto fra i dati raccolti in Paesi, discipline sanitarie, servizi e in periodi diversi; - offrire uno schema di codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari. L'ICF può rivelarsi utile per un'ampia serie di applicazioni diverse, per esempio l'ambito della previdenza sociale, della valutazione nell'assistenza sanitaria e delle ricerche statistiche su popolazioni a livello locale, nazionale e internazionale. Esso comprende tutti gli aspetti della salute umana e alcuni elementi del benessere importanti per la salute e li descrive come domini della salute e domini ad essa correlati; inoltre, non riguarda soltanto le persone con disabilità, come spesso erroneamente si pensa, ma riguarda tutti, ha un'applicazione universale. Infine, esistono due versioni dell'ICF in modo da rispondere alle necessità dei diversi utilizzatori e ai diversi livelli di apprendimento necessari; una versione completa in cui è presente una classificazione a quattro livelli di approfondimento e una versione breve contenente i primi due livelli della classificazione.
Normativa per l'inserimento lavorativo dei disabili
Parlare di disabilità non è facile, in quanto una persona con menomazione può risultare più o meno abile a seconda delle caratteristiche necessarie per affrontare un determinato contesto. Il primo paradigma normativo che tenta una categorizzazione univoca di queste menomazioni è il paradigma biomedico-individuale/ modello del deficit. Qui ci si basa sull'idea che la persona presenti un deficit interno il quale diventa fattore causale di difficoltà. Il problema non è quindi messo in relazione al contesto. Le modifiche fatte nel tempo dall'ICIDH (International Classification of Imparirments, disabilies, and Handicaps) hanno portato ad una modifica della classificazione della disabilità. L'ultima stesura (1999) rinomina la classificazione dell'ICF. Il primo modello ICIDH si basava sulla relazione tra: danneggiamento, disabilità, e handicap stabilendo che le lesioni ad un organo creano nell'individuo l'impossibilità di svolgere un lavoro ed è di conseguenza svantaggiato a livello sociale. Nel ICF viene stilata una nuova classificazione, adottata poi dall'OMS nel 2001. Con questa prospettiva la disabilità della persona viene considerata in relazione ai fattori contestuali. Il modello prende il nome di: ”biopsicosociale”. Si spiega che è la diversità dell'ambiente in cui il soggetto si trova a dare un valore ai suoi funzionamenti. Nell'esperienza Italiana la legge 504/1997 e la legge 104/1992 portano riferimenti alla disabilità e all'integrazione. Di grande importanza, nel panorama legislativo italiano, risulta la legge 68 pubblicata nel Supplemento Ordinario n. 57/L alla Gazzetta Ufficiale il 23 marzo 1999 riguardante le norme per il diritto al lavoro dei disabili allo scopo di promuovere l'inserimento e l'integrazione lavorativa delle persone disabili attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato rispettando la persona. L'ultimo aggiornamento di questa legge risale al Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151 (in SO n.53, relativo alle G.U 23/09/2015 n. 221) Essa viene applicata a:
· coloro affetti da minoranze fisiche, psichiche, sensoriali ed intellettive (con una riduzione delle capacità lavorative del 45 per cento)
· coloro i quali sono invalidi del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33 per cento
· le persone non vendenti o sordomute
· le persone invalide di guerra.
La legge inoltre sancisce il dovere dei datori di lavoro di mantenere il posto di lavoro a coloro che, non essendo disabili al momento dell'assunzione, abbiano subito un infortunio nel lavoro o una malattia professionale che gli ha fatto acquisire eventuali disabilità.
BES
L'espressione BES, “Bisogni Educativi Speciali”,
è entrata nel vasto uso in Italia dopo l'emanazione della Direttiva
Ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per
alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione
territoriale per l'inclusione scolastica“.
Descrizione
Il termine Bisogni educativi speciali
viene introdotto nel 1978 nel Regno Unito con l’emanazione del Warnock Report[5], documento con cui si
avvia un nuovo sistema di classificazione degli alunni con difficoltà di
apprendimento, fino a quel momento identificati come handicappati, e ad una
nuova definizione di special educational needs che sottolinea
il bisogno di un maggiore supporto da parte dell’organo educativo. I bisogni
educativi erano definiti per ogni soggetto in base al grado di deficit relativo
a cinque dimensioni fondamentali dello sviluppo: fisico, cognitivo, del
linguaggio, sociale ed emozionale.[6]
Il concetto di Bisogni educativi
speciali risulta quindi presente fin dagli anni settanta in Europa e in
America, accezione che può essere ritrovata in numerosi documenti dell’UNESCO e dettati
normativi scolastici. Diventa ufficialmente una categoria internazionale con
la Dichiarazione di
Salamanca dell’UNESCO del 1994 in cui si afferma che con il termine Bisogni
educativi speciali ci si riferisce a “tutti quei bambini e giovani i cui
bisogni derivano da disabilità oppure difficoltà di apprendimento”.[7] Altri documenti
dell’UNESCO che chiariscono
e ampliano tale concetto sono l’ISCED (international
standard classification of education) del 1997 che allarga la nozione di
Bisogni educativi speciali, ancora fortemente ancorata all’idea di deficit
individuale; e l’ISCED del 2011 in cui si specificano le ragioni dei BES e
vengono annoverati svantaggi di tipo fisico, comportamentale,
intellettivo, sociale ed emotivo, economico, linguistico.
In Italia si comincia a parlare di Bisogni educativi speciali a partire dal
1998, ma sarà necessario attendere fino al 2012 per una sua ufficializzazione
ministeriale con la Direttiva del 27 dicembre.
Dario Ianes definisce i
Bisogni educativi speciali come “una qualsiasi forma di difficoltà evolutiva in
ambito educativo che si manifesta in un funzionamento problematico dell’alunno
in interazione con l’ambiente”.[8] Tale difficoltà,
che necessita di educazione speciale individualizzata, si traduce per
il soggetto anche in termini di danno, ostacolo o stigma sociale.[9]
Infatti, se da un lato i Bisogni educativi
speciali possono favorire processi comprensione e integrazione, dall’altro è
necessario prestare grande attenzione per evitare processi di classificazione e
categorizzazione che generano di conseguenza stigmatizzazione, esclusione e
marginalizzazione. Come sostiene Patrizia Gaspari il concetto di bisogno è
riduttivo rispetto all’ampiezza del concetto di persona in quanto essere in divenire rispetto alle sue potenzialità, attese,
pensieri e desideri.[10]
A livello europeo e in particolare nel
mondo anglosassone si può assistere ad un tentativo di rivoluzionare il sistema
dei BES e della disabilità proprio in ottica di un superamento di tale termine
a favore di un concetto di educazione più inclusiva. Ad esempio in Inghilterra
si registra un nuovo sistema di “Education Healt and Care Plan” (EHC) operativo
a partire dall’aprile 2018, mentre l’UNESCO tende oggi ad utilizzare la
locuzione “Education for all” (EFA).[11]
L’approccio del Modello Sociale, in
linea con l’idea secondo cui la disabilità non è insita nel
soggetto ma dipende dal contesto, tende a spostare il focus dei Bisogni
educativi speciali dall’alunno all’ambiente sostituendo l’originale dicitura
con “barriere all’apprendimento e alla partecipazione” (Index for inclusion). Lo sguardo è posto
sul ruolo dei docenti e
sull’importanza di progetti ed interventi educativi appropriati. Infatti L'OECD
- Organization for
economic co-operation and development -[12] identifica tali
soggetti come bisognosi di “risorse pubbliche e/o private a supporto della loro
educazione, resa possibile progettando interventi educativo-didattici
potenziati, differenziati e personalizzati capaci di garantire percorsi
formativi sotto il segno delle pari opportunità”[13]
Si individua una stretta connessione con
la Pedagogia Speciale, “scienza della diversità” che richiede
di valorizzare l’unicità di ogni singolo individuo e le sue capacità.
I Bisogni educativi speciali in Europa
La dichiarazione di
Salamanca del giugno 1994, che può essere considerata il manifesto della scuola inclusiva, afferma che gli
alunni con Bisogni educativi speciali devono poter accedere alle scuole normali
e che la scuola ha il dovere di integrarli con una pedagogia centrata sull’alunno,
che soddisfi i suoi bisogni educativi.
Sancisce, inoltre, che tutti i Paesi
devono adottare il principio dell’educazione inclusiva, accogliendo tutti i
bambini nelle scuole normali. Tuttavia le definizioni di ‘Bisogni educativi
speciali’ variano a seconda dei Paesi e delle norme amministrative, finanziarie
e procedurali in essi applicate. In molti di essi si ritiene che ‘l’approccio
medico dovrebbe essere trasformato in approccio educativo: un punto centrale
che ha conseguenze sul sistema scolastico. Allo stesso tempo è chiaro che l’approccio educativo è molto
complesso e i paesi incontrano difficoltà di applicazione’.[14] Anche
l’incidenza percentuale del fenomeno varia da paese a paese, tuttavia questo
non è riconducibile a una disomogenea diffusione quanto piuttosto a diversità
in ambito legislativo e di politiche attuative.
I paesi europei, in base alle politiche adottate
sul tema integrazione, vengono suddivisi in 3 categorie[15]
·
Approccio unidirezionale: la politica di
questi paesi tende ad inserire quasi tutti gli alunni nel sistema ordinario. È
il caso di Spagna, Grecia, Italia, Portogallo, Svezia, Irlanda, Norvegia e Cipro.
·
Approccio multi
direzionale: paesi che presentano una molteplicità di approcci all’integrazione.
Questi offrono una pluralità di servizi sia nel percorso ordinario che in
quello differenziato e il genitore può scegliere. È il caso di Danimarca, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Austria, Finlandia, Inghilterra, Lituania, Liechtenstein, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Polonia, Slovenia.
·
Approccio bidirezionale: paesi in cui
esistono due diversi sistemi educativi. Gli alunni disabili vengono inseriti in
scuole o classi speciali e quelli con
Bisogni educativi speciali non seguono la programmazione prevista dalla
normativa per le classi normali. Questi paesi hanno una legislazione specifica,
con norme diverse dalla scuola ordinaria. In Svizzera e in Belgio, il sistema
scolastico differenziato è molto diffuso.
AUTISMO
L'autismo (dal greco αὐτός, aütós - stesso) è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato
dalla compromissione dell'interazione sociale e da deficit della comunicazione
verbale e non verbale che provoca ristrettezza d'interessi e comportamenti
ripetitivi.[1] I genitori di
solito notano i primi segni entro i due anni di vita del bambino e la diagnosi
certa spesso può essere fatta entro i trenta mesi di vita. Attualmente
risultano ancora sconosciute le cause di tale manifestazione, divise tra
cause neurobiologiche costituzionali e
psicoambientali acquisite.[2]
Più precisamente, data la varietà di
sintomatologie e la complessità nel fornirne una definizione clinica coerente e
unitaria, è recentemente invalso l'uso di parlare più correttamente di Disturbi
dello Spettro Autistico (DSA o, in inglese, ASD, Autistic
Spectrum Disorders), comprendendo tutta una serie di patologie o sindromi
aventi come denominatore comune le suddette caratteristiche comportamentali,
sebbene a vari gradi o livelli di intensità.
A livello di classificazione
nosografica, nel DSM-IV è considerato
rientrare nella categoria clinica dei disturbi pervasivi dello sviluppo, cui appartengono,
fra le varie altre sindromi, anche la sindrome di Asperger, la sindrome di Rett e il disturbo disintegrativo dell'infanzia.
Con l'uscita del DSM-5, la categoria dei
disturbi pervasivi dello sviluppo e tutti i disturbi in essa compresi (con
l'eccezione della sindrome di Rett) è stata sostituita da un unico disturbo che
li comprende tutti: il disturbo dello spettro dell'autismo o
più comunemente "disturbi dello spettro autistico". L'asse a cui il
disturbo fa riferimento è quella dei disturbi del neurosviluppo.
Purtroppo la presenza dei disturbi dello
spettro autistico nel DSM alimenta la già presente confusione riguardo al
considerare l'autismo (lo spettro autistico) non come una sindrome più di
competenza della neuropsichiatria (in quanto sindrome di origine neurologica)
ma della psichiatria (classificandola come disturbo prettamente mentale).
HANDICAP
Significato
Il mondo della disabilità ha vissuto profonde trasformazioni in
epoca contemporanea grazie allo sviluppo di un'area di ricerca che trae origine
dall'attivismo di persone con disabilità. Tale area di studio si diffonde
inizialmente nei paesi di cultura anglosassone per poi espandersi in Europa
Settentrionale e, a partire dagli anni settanta del XX secolo, hanno
preso corpo numerose azioni di rinnovamento dei servizi e degli interventi a
favore della persona con disabilità[2]. Il
cosiddetto processo d'inserimento dei portatori di handicap, oggetto delle
politiche sociali di quegli anni è andato via via affinandosi, sino a diventare
un processo d'integrazione. Tale processo si presenta come un orizzonte di
ricerca al suo interno molto differenziato ma che appartiene a una teoria
unificante che condivide una trama comune che comprende: approccio critico al
linguaggio normativo e sociale del deficit, confronto critico con il modello
medico che vede la disabilità come elemento individuale basato sul legame
accidentale tra menomazione e l'essere disabile, l'esame delle pratiche sociali
ed istituzionali che causano l'esclusione e il raggiungimento
dell'emancipazione e dell'autodeterminazione nella prospettiva dei diritti.
Inoltre, tra i termini inclusione sociale e integrazione sociale vi è una
distinzione:
·
L'inclusione sociale è la situazione in
cui, in riferimento a una serie di aspetti che permettono agli individui di
vivere secondo i propri valori, le proprie scelte, è possibile migliorare le
proprie condizioni e rendere le differenze tra le persone e i gruppi
socialmente accettabili.
·
L'integrazione sociale è, invece, qualcosa di più
profondo, come l'inserimento delle diverse identità in un unico contesto
all'interno del quale non sia presente alcuna discriminazione. L'integrazione è
intesa come il processo attraverso il quale il sistema acquista e soprattutto
conserva un'unità strutturale e funzionale, mantenendo un equilibrio attraverso
processi di cooperazione sociale e di coordinamento tra i ruoli e le
istituzioni.
Quello di disabilità non è un concetto universale, ma molto
spesso la sua definizione è legata al ricercatore e/o al tipo di ricerca che si
sta effettuando. Un tentantativo di schematizzare gli orizzonti dello studio
sulla disabilità è stato offerto dallo studioso David Pfeiffer, che individua
nove interpretazioni del paradigma della disabilità:
-La versione socio-costruttivista americana: Goffman parla
di categorie che nelle interazioni sociali vengono avvilite, viene proiettato
su di esse uno stigma che
costruisce l'identità delle persone disabili.
-Il modello sociale inglese: presenta una prospettiva di classe
sulla disabilità.
-La versione del deficit o impairment: differenza legata
all'abilismo.
-La versione della continuità: ciascuno può essere disabile
secondo l'idea di continuità tra disabilità e non disabilità.
-La versione della varietà umana: le persone disabili soffrono
di discriminazione perché la loro comunità è molto differenziata.
-Disabilità come discriminazione: una persona si sente desabled
solo quando si confronta con la discriminazione.
Non esiste a livello internazionale un'univoca definizione del
termine, anche se il concetto di disabilità è stato dibattuto
in occasione della Convenzione
ONU per i diritti delle persone con disabilità,
redigendo un documento finale approvato dall'Assemblea generale il 25 agosto
2006.
La classificazione ICIDH
La classificazione ICIDH (International Classification of
Impairments Disabilities and Handicaps) del 1980 dell'Organizzazione mondiale della
sanità (OMS) distingueva tra:
·
Menomazione[3] intesa
come perdita o anormalità a carico di una struttura o una funzione psicologica,
fisiologica o anatomica e rappresenta l'estensione di uno stato patologico. Se
tale disfunzione è congenita si parla di minorazione;
·
Disabilità, ovvero qualsiasi
limitazione della capacità di agire, naturale conseguenza ad uno stato di
minorazione/menomazione;
·
Handicap, svantaggio sociale
vissuto da una persona a seguito di disabilità o minorazione/menomazione.
Questo significa che mentre la disabilità viene intesa come lo
svantaggio che la persona presenta a livello personale, l'handicap rappresenta lo svantaggio
sociale della persona con disabilità. L'ICIDH prevede la sequenza:
Menomazione→Disabilità→Handicap, che, tuttavia, non è automatica, in quanto
l'handicap può essere diretta conseguenza di una menomazione, senza la
mediazione dello stato di disabilità. Le origini della parola handicap risalgono
alla descrizione di svantaggio nelle corse dei cavalli, in cui animali diversi
erano caricati con pesi diversi per svantaggiarli.
Si parla di handicap per descrivere uno svantaggio fisico, senza
tenere in considerazione la condizione che si crea, quando viene detta questa
parola, che può manifestare nel persona con disabilità un senso di disagio e
rabbia per la sua situazione.
Per descrivere la situazione di una persona con disabilità,
molto spesso il linguaggio giornalistico o televisivo usa il termine
"handicap", ma questo non è ben accetto dalle persone interessate
perché la persona "ha" una disabilità, non "è" una
disabilità o un handicap.
Tale classificazione negli anni ha mostrato una serie di
limitazioni.
·
Non considera che la disabilità è un concetto dinamico, in
quanto può anche essere solo temporanea.
·
È difficile stabilire un livello oltre il quale una persona può
considerarsi persona con disabilità.
·
La sequenza può essere interrotta, nel senso che una persona può
essere menomata senza avere disabilità.
·
Nell'ICIDH si considerano solo i fattori patologici, mentre un
ruolo determinante nella limitazione o facilitazione dell'autonomia del
soggetto è giocato da quelli ambientali.
Negli anni 90, l'OMS ha commissionato a un gruppo di esperti di
riformulare la classificazione tenendo conto di questi concetti. La nuova
classificazione, detta ICF (International Classification of Functioning)
o Classificazione dello stato di salute, definisce lo stato di
salute delle persone piuttosto che le limitazioni, dichiarando che l'individuo
"sano" si identifica come "individuo in stato di benessere
psicofisico" ribaltando, di fatto la concezione di stato di salute.
Introduce inoltre una classificazione dei fattori ambientali.
Il nuovo standard ICF
Il concetto di disabilità cambia e secondo la nuova
classificazione (approvata da quasi tutte le nazioni afferenti all'ONU) e diventa
un termine
ombrello che identifica le difficoltà di funzionamento della
persona sia a livello personale che nella partecipazione sociale.
In questa classificazione i fattori biomedici e patologici non
sono gli unici presi in considerazione, ma si considera anche l'interazione
sociale: l'approccio, così, diventa multiprospettico: biologico, personale,
sociale. La stessa terminologia usata è indice di questo cambiamento di
prospettiva, in quanto ai termini di menomazione, disabilità ed handicap (che
attestavano un approccio essenzialmente medicalista) si sostituiscono i termini
di Strutture Corporee, Attività e Partecipazione.
Di fatto lo standard diventa più complesso, in quanto si
considerano anche i fattori sociali, e non più solo quelli organici.
Funzioni corporee
1.
Funzioni mentali
2.
Funzioni sensoriali e dolore
3.
Funzioni della voce e dell'eloquio
4.
Funzioni dei sistemi cardiovascolare,
ematologico, immunologico, respiratorio
5.
Funzioni dell'apparato digerente e dei
sistemi metabolico ed endocrino
6.
Funzioni riproduttive e genitourinarie
7.
Funzioni neuro - muscolo - scheletriche
correlate al movimento
8.
Funzioni cutanee e delle strutture
correlate
Strutture corporee
1.
Sistema nervoso
2.
Visione e udito
3.
Comunicazione verbale
4.
Sistemi cardiovascolare e immunologico,
apparato respiratorio
5.
Apparato digerente e sistemi metabolico ed
endocrino
6.
Sistemi genitourinario e riproduttivo
7.
Movimento
8.
Cute e strutture correlate
Fattori
ambientali
1.
Prodotti e tecnologia
2.
Ambiente naturale e cambiamenti effettuati
dall'uomo
3.
Relazione e sostegno sociale
4.
Atteggiamenti
5.
Sistemi, servizi e politici
Attività e
partecipazione
1.
Apprendimento ed applicazione delle
conoscenze
2.
Compiti e richieste generali
3.
Comunicazione
4.
Mobilità
5.
Cura della propria persona
6.
Vita domestica
7.
Interazione e relazioni personali
8.
Aree di vita principali
9.
Vita sociale, civile e di comunità
La nuova classificazione è subentrata all'ICIDH il 21 maggio
2001 quale nuovo standard di classificazione dello stato di malattia e di
salute.
Differenze tra le due prospettive
L'ICIDH era coerente con una prospettiva organicistica, e il
punto di partenza è sempre lo stato morboso (malattia congenita o sopravvenuta,
incidente) in seguito al quale si origina una menomazione, intesa come perdita
(o anomalia) funzionale, fisica o psichica, a carico dell'organismo. Tale
menomazione può sfociare in disabilità, intesa come limitazione della persona
nello svolgimento delle "normali" attività, mentre questa può portare
all'handicap, ovvero allo svantaggio sociale che si manifesta nell'interazione
con l'ambiente.
Quella dell'ICF è una prospettiva multidimensionale, che non si
limita solo ai fattori organici, definiti come "funzioni" e
"strutture corporee". In effetti l'intero schema dell'ICF è
fondamentalmente una ripartizione in due macrocategorie, a loro volte
ulteriormente suddivise:
·
Parte 1: Funzionamento e disabilità, comprendente i fattori
organici;
1.
Strutture corporee (organi e strutture anatomiche in genere)
2.
Funzioni corporee (le funzioni fisiologiche espletate da tali
strutture)
·
Parte 2: Fattori contestuali;
1.
Fattori ambientali (ovvero dell'ambiente fisico - sociale)
2.
Fattori personali, consistenti nella capacità d'interazione con
l'ambiente fisico - sociale.
Ogni fattore interagisce con gli altri, ed i fattori ambientali
e personali non sono meno importanti dei fattori organici. Lo schema generale
è: funzioni e strutture corporee ↔ Attività ↔ Partecipazione.
In sostanza l'ICIDH valutava i fattori di disabilità iniziando
dalla menomazione, mentre l'ICF valuta le abilità residue dell'individuo (tale
ottica è evidente sin dal nome dello standard, ovvero "classificazione
internazionale delle funzionalità"), sostituendo al concetto di
"grado di disabilità" quello di "soglia funzionale".
Ciò che è fondamentalmente diverso è l'ambito di applicazione:
mentre l'ICIDH è limitato al semplice ambito della disabilità, l'ICF descrive i
vari gradi di funzionalità partendo dall'interazione dei suoi fattori e
prevedendo anche diverse sottoclassi dello stesso parametro.[4]
·
Strutture corporee
o Funzioni
mentali
§ Funzioni
mentali globali
§ Funzioni
dell'orientamento
§ Orientamento
alla persona
§ Orientamento
a sé stessi
La disabilità stessa, quindi, viene vista in senso dinamico, in quanto
non solo dipendente da stati patologici cronici, ma anche da fattori psichici e
sociali, fattori necessariamente in costante evoluzione.
Pro
«Nel 1999 l'Organizzazione Mondiale della
Sanità ha pubblicato la nuova "Classificazione
Internazionale delle Menomazioni, delle Attività personali (ex-Disabilità) e
della Partecipazione sociale (ex handicap o svantaggio esistenziale)"
(ICIDH-2). [...In particolare,] con attività personali si considerano le
limitazioni di natura, durata e qualità che una persona subisce nelle proprie
attività, a qualsiasi livello di complessità, a causa di una menomazione
strutturale o funzionale. Sulla base di questa definizione ogni persona è
diversamente abile. Una persona - scrive Canevaro - è relativamente
handicappata, cioè l'handicap è un fatto relativo e non un assoluto, al
contrario di ciò che si può dire per il deficit. In altri termini,
un'amputazione non può essere negata ed è quindi assoluta; lo svantaggio
(handicap) è invece relativo alle condizioni di vita e di lavoro, quindi alla
realtà in cui l'individuo amputato è collocato. L'handicap è dunque un incontro
fra individuo e situazione.»
«Il 22 maggio 2001 l'OMS perviene alla stesura di uno strumento
di classificazione innovativo, multidisciplinare e dall'approccio universale:
"La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e
della Salute", denominato ICF. All'elaborazione di tale classificazione
hanno partecipato 192 governi che compongono l'Assemblea Mondiale della Sanità.
[…] Il primo aspetto innovativo della classificazione emerge chiaramente nel
titolo della stessa. […] L'applicazione universale dell'ICF emerge nella misura
in cui la disabilità non viene considerata un problema di un gruppo minoritario
all'interno di una comunità, ma un'esperienza che tutti, nell'arco della vita,
possono sperimentare. L'OMS, attraverso l'ICF, propone un modello di disabilità
universale, applicabile a qualsiasi persona, normodotata o diversamente abile.»[5]
Contro
«Qualche anno fa, alcune persone con disabilità hanno avuto
l'acuta e orgogliosa intuizione di sottolineare come, anche in presenza di una
menomazione importante, riescano a produrre, realizzare, essere competitivi con
il resto del mondo. Il che talvolta è vero. Per definire questa condizione
hanno coniato il neologismo "diversamente abili". Nella loro bocca,
in quel contesto, in quel momento poteva forse avere un senso. Forse. Ciò
perché alla fin fine si enfatizza il concetto di abilità a tutti i costi, la
concorrenza, la rincorsa ad una omologata normalità con tutti i paradossi che
questa porta con sé.
Ma ci sono persone, più di quante si creda, la cui principale e
vitale esigenza non è quella dì trovare un lavoro e un collocamento mirato, ma
quella di assicurarsi un servizio di assistenza che renda meno gravosa l'insostenibile
pesantezza del quotidiano per i loro familiari a cui è delegata in toto - da
distretti, comuni e servizi sociali - la loro stessa sopravvivenza. Sono le
persone con handicap gravissimo e se il termine urtasse le sensibilità più
raffinate potremmo definirle "con gravi deficit psico-fisici".
Persone che al turismo accessibile non possono interessarsi, come pure alla
possibilità di guidare un veicolo o alle opportunità dei servizi telematici o
alla partecipazione a battaglie civili di avanguardia. La loro preoccupazione è
- banalmente - sopravvivere, qualche volta malgrado i servizi
socio-assistenziali pubblici. E se quei servizi verranno ulteriormente tagliati
non diranno nulla perché non hanno voce. Altro che diversamente qualcosa".
Niente di male, lo ripetiamo, se una persona con disabilità si autodefinisce
"diversamente abile". Qualcuno potrà sorridere a qualcun altro si
inumidirà il ciglio di fronte a cotanta fierezza, in qualcuno scatterà
l'emulazione e la volontà di superare la provocazione definendosi financo
"diversamente dotato" (evocando pruriginose rimembranze). Ma quando
il termine deborda dalla boutade per assurgere a termine di uso comune, si
comincia a percepire un sentore di ipocrisia.
E mai come negli ultime mesi ci è capitato di annotare quel
termine - "diversamente abili" - magistralmente inchiavardato nei
pubblici sermoni di politici opinionisti, operatori, funzionari, responsabili
di associazioni. Sembra si voglia far intendere che l'epoca dell'invalido
povero ed emarginato sia stata sepolta da una nuova cultura fatta di promozione
e di integrazione, di sperimentazione e di innovazione. Di questa
"rivoluzione culturale" i "diversamente abili" sarebbero
addirittura apportatori di ricchezza proprio grazie alla loro diversità. Siamo
certi che le persone con disabilità farebbero volentieri a meno di quella
ricchezza. Sono portatori semmai di esigenze particolari che tanto sono più
gravi quanto meno trovano risposta.
L'affermazione poi ce ne ricorda una di un po' più datata e
svagata che interpretava la malattia mentale come una condizione comunque
felice perché fuori dai rigidi e stereotipati paradigmi di una società bruta e
poco creativa. Pregiudizio mascherato. Voglia di negare il profondo disagio che
è proprio della malattia. La stessa superficiale ipocrisia di chi - e non sono
in pochi - sostiene che le persone con Sindrome di Down sono comunque felici
"perché sorridono e sono socievoli". Quindi "diversamente
abili"!
È quindi una definizione non stigmatizzante e che raschia di
meno la crosta nelle paure di ognuno di noi, che siamo o meno disabili. Ma è
una terminologia oltre che falsa, inefficace. Falsa perché distorce la realtà
spalmandola su un quadro rassicurante, una rappresentazione buona per tutti i
salotti e per tutte le stagioni. Inefficace perché non evidenzia il disagio e
non rimarca l'obbligo civile della presa in carico da parte di tutti.»[6]
Aggiungerei che lo stesso utilizzo di un termine unico per
definire in blocco persone assai diverse fra loro e con
problemi diversissimi e che necessitano di cure ed assistenza differenziati, è
già di per sé discriminante[7]. Nessuna
persona normale accetterebbe, se ammalata, di essere
ricoverata in un ospedale generico, dove a tutti i pazienti vengono fornite le
stesse medesime cure e la medesima assistenza; ma questo è ciò che spesso
accade alle persone con disabilità perché, nonostante le varie leggi, i PEI,
ecc.., per la scuola, le amministrazioni pubbliche ed i centri servizi, una
risposta standardizzata e sempre uguale è economicamente conveniente e
quindi migliore[7]. Il
problema quindi, per chi deve, per obbligo istituzionale, offrire servizi
ai diversamente abili, diventa il seguente: come far rientrare una
risposta standardizzata dentro un PEI personalizzato?[7]. Tutto
ciò ricorda la famosa frase pronunciata nel 1913 dell'industriale Henry
Ford: ogni cliente può ottenere una Ford T colorata di qualunque colore
desideri, purché sia nero[8]. Che
questo atteggiamento sia quello in fondo auspicato, al di là di tutte le leggi
e le apparenti buone intenzioni, è dimostrato, per esempio, dai criteri di
selezione degli insegnanti di sostegno applicati dallo stato italiano. Non c'è
una vera e propria selezione, né una qualifica specifica (nonostante si parli
sempre più spesso di bisogni educativi speciali BES): solitamente gli
insegnanti di sostegno (a parte pochi ammirevoli esempi), sono insegnanti o in
attesa di altro incarico o non più idonei alla gestione di classi numerose.
L'insegnamento di sostegno diventa così o una qualifica di ripiego o una gavetta necessaria
per aspirare ad incarichi migliori[9].
A tal proposito William Thomas propone il modello della
disabilità definito: "impairment effects" (conseguenze
della menomazione), affermando che la disabilità non ha nulla a che fare con la
menomazione fisica o mentale, giacché la disabilità è socialmente costruita, ma
la disabilità deve tenere in considerazione le conseguenze che derivano dalla
menomazione fisica o mentale poiché anche alcuni aspetti della menomazione sono
comunque disabilitanti per la vita delle persone (Thomas 1999) tanto quanto
quelli sociali.
Ulteriori critiche al modello sociale della disabilità sono
state mosse anche da Shakespeare e Watson, secondo i quali il modello sociale
non riesce a definire il fenomeno della disabilità nella sua complessività.
Dunque da ciò si evince come tale modello sia caratterizzato da
forti limiti, come quello di centrarsi su aspetti <sociali> che portano
al non fornire risposte concrete e utili per la vita delle persone disabili.[10]
Possibile sintesi
«L'espressione "diversamente abile" pone l'enfasi
sulla differenza qualitativa nell'uso delle abilità. Esso viene utilizzato per
specificare che attraverso modalità diverse si raggiungono gli stessi
obiettivi. Vi sono delle situazioni di disabilità in cui questo uso può essere
adeguato. Ad esempio allievi non vedenti o ipovedenti possono raggiungere lo
stesso adeguati risultati scolastici e sociali utilizzando le risorse visive
residue (potenziate con adeguati strumenti) o abilità compensative (ad esempio
quelle verbali). Vi sono altre situazioni, come quelle riguardanti due terzi di
tutti gli allievi certificati e cioè quelli con ritardo mentale, in cui l'uso
della terminologia diversamente abile può risultare fuorviante. Consideriamo il
caso di un tipico allievo con sindrome di Down. Dal punto di vista della qualità
della vita forse si può anche dire che utilizzando le proprie capacità (o
abilità) egli può comunque raggiungere obiettivi paragonabili a quelli di tutte
le altre persone. In altre parole può raggiungere un benessere che non può
essere considerato inferiore. Se questo è il riferimento, l'espressione
"diversamente abile" potrebbe anche essere utilizzata. Se il
riferimento diventa invece quello delle prestazioni scolastiche, sociali e di
autonomia, l'espressione "diversamente abile" può risultare ingannevole,
in quanto "nasconde" il fatto che tali prestazioni sono inferiori
rispetto a quelle tipiche della normalità.»[11]
Per quanto concerne l'evoluzione terminologica del
concetto di disabilità, siamo passati, nel corso degli anni, da termini come
“subnormale”, “non vedente”, “cerebroleso”, “invalido”, dove si rimarcava solo
ed esclusivamente il deficit della persona con disabilità al termine
“handicappato” nella Legge n.104 dove, invece, è chiara l’idea di
svantaggio. Canevaro propone una distinzione tra il termine
“deficit” (un dato oggettivo, una mancanza certificata) e il termine “handicap”
(che è lo svantaggio che il deficit procura alla persona, la difficoltà che
incontra interagendo con gli ostacoli che l’handicap incontra nell’ambiente
stesso). Afferma, quindi, che il termine “handicappato” evidenzia l’handicap,
mentre il termine “disabile” sottolinea il deficit, in quanto rimanda all’idea
di una mancanza, di un qualcosa “in meno” rispetto agli altri, senza una
qualche abilità, riducendo la persona al suo deficit. Con “diversamente abile”
si accentua la positività delle abilità seppur diverse da quelle comuni.
Risulta ingannevole in quanto nasconde il deficit. Claudio Imprudente propone
la definizione di “diversabile” per spostare l’accento dalle non abilità alle
abilità diverse, in quanto ognuno di noi lo è. Ma ha trovato poca diffusione.
Arriviamo a “persona con disabilità” che, oggi, è diventata standard. Pone
l’attenzione sulla persona, che viene messa al primo posto. La sua condizione
viene dopo. Salvaguarda, quindi, la dignità umana ma non nega la presenza del
disagio, limitandolo, tuttavia, ad essere una caratteristica della persona e
non a soffocarne l’intera identità.
In realtà le critiche supposte (circa il modello sociale
della disabilità) non tengono in considerazione il fatto che il
modello sociale della disabilità non è una teoria in senso tradizionale ma un
tipo di modello o approccio, ovvero un modo che spiega i fenomeni che ci
circondano, inclusa la disabilità.
Di conseguenza c'è necessità di distinguere la differenza che vi
è tra teoria e
modello; queste due differenze sono molto sottili ma sempre disuguali.
La teoria è intesa come qualcosa che si basa su principi
generalizzabili e potenzialmente in grado di prevedere fenomeni, mentre un
modello offre una rappresentazione della realtà e dunque di una sua possibile
lettura, che può subire dei cambiamenti in base al contesto.
Soltanto in questo modo il modello sociale della disabilità può
diventare un utile strumento per comprendere la disabilità nelle sue diverse
componenti e contesti.
GIORNATA MONDIALE DELLA DISABILITA’
La Giornata internazionale delle
persone con disabilità[1] è indetta
dalle Nazioni Unite dal 1992. La
Giornata mira ad aumentare la consapevolezza verso la comprensione dei problemi
connessi alla disabilità e l'impegno per
garantire la dignità, i diritti e il benessere delle persone
con disabilità. Ogni 3 dicembre la giornata è dedicata ad un tema specifico.
Nel 2017, in questo stesso giorno, la Bandiera della disabilità è stata
presentata presso la sede europea delle Nazioni Unite.[2]
Sulla base di molti decenni di
lavoro delle Nazioni Unite nel campo della disabilità, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) adottata nel
2006, ha ulteriormente migliorato i diritti e il benessere delle persone con
disabilità nell'attuazione dell'Agenda per lo sviluppo sostenibile del
2030